#romanzo Frassinelli.
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Sentimi – Il potere delle voci femminili nel romanzo corale di Tea Ranno. Recensione di Alessandria today
Cento voci, una storia: la forza delle donne e dei loro racconti in un romanzo corale intriso di emozioni e memorie.
Cento voci, una storia: la forza delle donne e dei loro racconti in un romanzo corale intriso di emozioni e memorie. Recensione:“Sentimi” di Tea Ranno è un romanzo corale che raccoglie le voci di cento donne, intrecciando le loro storie in un unico racconto che celebra la forza e la resilienza femminile. La narrazione si sviluppa in un piccolo paese siciliano, dove ogni donna porta con sé un…
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L'uomo che visse sottoterra, esce un inedito di Richard Wright
RICHARD WRIGHT, L’UOMO CHE VISSE SOTTOTERRA (FRASSINELLI, PP. 432, EURO 20) Mai pubblicato in Italia, arriva nelle nostre librerie il 3 ottobre il capolavoro inedito dell’autore di Ragazzo negro, Richard Wright. È L’uomo che visse sottoterra, pubblicato da Frassinelli nella traduzione di Christian Pastore, una storia drammaticamente contemporanea sulla violenza razziale. Il romanzo,…
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I passi dell’amore Abbiamo sognato tutte leggendo questo struggente, emozionante e bellissimo romanzo d'amore. Questo romanzo è stato il primo che ho letto dell'autore Nicholas Sparks, anche se negli ultimi anni, ho spaziato verso altri autori, la sua penna e narrazione resta incisa sul mio cuore. Ho letto questo libro quando avevo all'incirca 15 anni e mi ha regalato emozioni incredibili.
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Buon pomeriggio lettori 🤍 ~ È disponibile da oggi, su Amazon Prime, il nuovo film con Harry Styles, tratto dal romanzo di Bethan Roberts: My Policeman 👮🏻♂️ ~ La storia ruota attorno ai tre protagonisti: Tom, giovane poliziotto, Marion, insegnante innamorata di lui sin da bambina e Patrick, curatore al museo. Per Marion e Patrick, Tom rappresenta l’uomo di cui sono innamorati, ma nell’Inghilterra degli anni ‘50, l’omosessualità è condannata dalla legge, così il giovane poliziotto nasconde il suo peccato dietro il matrimonio con Marion. Almeno fino a quando le loro vite finiranno per spezzarsi. ~ Nonostante avessi motivi per odiare l’uno o l’altro personaggio, sono riuscita comunque ad immedesimarmi appieno nelle loro scelte e nei loro sentimenti, grazie soprattutto alla bravura dell’autrice nel descriverli. Conoscere il punto di vista sia di Marion che di Patrick ha mostrato tutte le sfumature di una storia d’amore in cui tre persone si sono amate, perdonate, fatte del male e rimpiante, condividendo lacrime e dolore, ma rincorrendo il tempo che le teneva separate. “My Policeman” è liberamente ispirato alle vicende dello scrittore E.M. Forster e descrive la vita di uomini e donne con un unico grande difetto: quello di amarsi ogni oltre misura. ~ Lo avete letto? Cosa ne pensate? 💭 Oppure preferite guardare il film? 🎞️ Fatemelo sapere nei commenti! ♥️ ~ #libro #bookstagramitaly #book #leggere #reading #lettricecompulsiva #leggerechepassione #consiglidilettura #leggereésempreunabuonaidea #recensione #bookreview #letteratura #lettureconsigliate #lettrice #reader #ioleggo #booklover #bookphotography #laragazzadellibro #mypoliceman #bethanroberts #frassinelli https://www.instagram.com/p/CkjF1oXoZnf/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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"Ogni romanzo è, o dovrebbe esser scritto affinché lo leggano uomini e donne, e non riesco proprio a immaginare come potrebbe un uomo permettersi di scrivere qualcosa di davvero vergognoso per una donna, o perché una donna dovrebbe essere censurata per aver scritto qualcosa di decoroso e appropriato per un uomo." - Anne Brontë . . . www.seunanottedinvernounlibro.it #libro #libri #libreriaonline #libreria #book #books #bookstagram #cit #citazione #seunanottedinvernounlibro #romanzo #libriusati #librirari #instabook #instabooks #bookshop #bookpride #letteratura #leggere #lettura #narrativa #annebrontë #frassinelli https://www.instagram.com/p/B6L_VMEI0C-/?igshid=dw3si7s4qlsz
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10 giu 2020 17:06
CESARE PAVESE ERA MIO ZIO – ‘’LE SCEGLIEVA UNA PEGGIO DELL'ALTRA, A PARTE LA PIVANO CHE NON VOLLE SPOSARLO. C'ERA LA DONNA CON LA VOCE ROCA, PER LA QUALE DI FATTO SI FECE MANDARE AL CONFINO: QUANDO TORNÒ, E SEPPE CHE LEI NEL FRATTEMPO SI ERA SPOSATA, CADDE SVENUTO. E POI QUELL'AMERICANA, L'ATTRICE, L'ULTIMA” – ‘’IL MONDO DELLA CULTURA, PIENO DI INVIDIE E GELOSIE, GLI AVEVA FATTO PESARE DI NON AVERE COMBATTUTO, DI NON ESSERE STATO PARTIGIANO, I COMUNISTI SPECIALMENTE. MA LO ZIO AVEVA L'ASMA…”
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Maurizio Crosetti per “il Venerdì - la Repubblica”
Questo tesoro l' abbiamo tenuto sulla scrivania per quattro giorni, sfogliandolo come il più fragile oggetto del creato. Era rimasto chiuso in una valigia per novant' anni, poi la nipote di Cesare Pavese, una signora di 92 anni di nome Maria Luisa Sini, ce l' ha affidato perché potessimo cercarvi una presenza, un segno. È un dattiloscritto di 304 pagine corrette a penna stilografica con inchiostro nero, la carta quasi una velina, la grafia elegante e nitida.
Il testo è rilegato con due graffe arrugginite e sulla copertina reca, in alto a destra, una serie di monogrammi «CP» vergati dall' autore ventiduenne: per la precisione undici, più uno cancellato. In azzurro chiaro, probabilmente incise con una matita a pastello, due scritte: «Walt Whitman», al centro, e in basso a destra la firma: «Pavese».
Si tratta della prima stesura della sua tesi di laurea, Interpretazione della poesia di Walt Whitman. L' anno era il 1930.
Il mese, agosto. Un documento emozionante e prezioso, pieno di cancellature, correzioni, aggiunte e annotazioni che Pavese inserì nella sua tormentata tesi dapprima rifiutata dal relatore, professor Federico Olivero, perché "troppo scabrosa", poi accettata dal docente di letteratura francese, professor Ferdinando Neri. Un evidente compromesso: in realtà, le ragioni del contrasto erano politiche.
Whitman è un poeta della libertà, e il nascente fascismo non poteva accettarlo. Gli interventi di Pavese nella redazione finale furono molteplici. Eliminò molte parti scritte in inglese, e soprattutto le sue traduzioni di Whitman, rimaste inedite per quasi un secolo. Il Venerdì è in grado di proporne uno stralcio.
Il futuro traduttore di Moby Dick, appena due anni più tardi (1932 per Frassinelli), autore di romanzi fondamentali e ancora ricchissimi di potenza espressiva e poesia, si sarebbe tolto la vita esattamente vent' anni dopo, il 27 agosto 1950.
Nel settantesimo anniversario della morte, l' editore Einaudi, di cui Cesare Pavese fu non solo un grande autore ma un fondamentale e infaticabile redattore, manda alle stampe nei tascabili una riedizione completa di questi classici della letteratura italiana, con nuove prefazioni di alcuni tra i principali scrittori contemporanei della scuderia di via Biancamano (dal 26 maggio in libreria).
L' inedita prima versione della tesi di laurea mostra un Pavese già assai convinto di sé, ai limiti della supponenza. Era solo un ragazzo, ma con il piglio di un critico navigato. È tutta scritta in prima persona ed è, come dire?, parecchio autoriale, in alcuni passaggi decisamente polemica.
La si potrebbe quasi definire «un luogo pavesiano», non dissimile in fondo dalla casa paterna a Santo Stefano Belbo, dalla dimora torinese di via Lamarmora 35, oppure dalla vera casa in collina del celebre romanzo del 1948: non è a Torino, come nella finzione narrativa, e neppure in Langa, ma nel Monferrato Casalese, a Serralunga di Crea, ai piedi del santuario.
Qui Pavese visse da sfollato dall' 8 settembre 1943 fino alla conclusione della Seconda guerra mondiale, abitando insieme alla sorella Maria, al cognato Guglielmo e alle loro figlie Cesarina e Maria Luisa, proprio lei, la signora che ci ha prestato il manoscritto dalla copertina color carta di pane.
La casa di Serralunga è disabitata da vent' anni, ma la famiglia non ha mai voluto venderla. Nel romanzo, il protagonista Corrado passeggia nei dintorni e tra i boschi con il ragazzino Dino, figlio di Cate, che forse è anche figlio suo. Quasi nulla è cambiato. Gli arbusti, il pozzo e il gazebo lasciano immaginare lo scrittore al lavoro, lui che in quegli anni successivi al confino di Brancaleone Calabro insegnò lettere sotto falso nome al collegio Trevisio di Casale Monferrato, dove si presentava come il professor Carlo De Ambrogio.
La scuola era gestita dai padri Somaschi, e in quel periodo Pavese si avvicinò un poco alla religione. Qui a Serralunga iniziò a cercare le radici del mito che tanta parte avrebbe avuto nella sua produzione letteraria. Scriveva seduto al tavolo della cucina, unico locale della casa riscaldato da una stufa. Ma Cesare, ricorda la nipote, «non era mica un freddoloso, si lavava con l' acqua gelata e nel letto non voleva lo scaldino, che a quel tempo si chiamava "il prete". Scriveva e traduceva, e una volta fece per me un tema su Dante: ebbene, la professoressa mi mise un 3, però allo zio non ebbi mai il coraggio di dirlo».
Dentro questa casa grigia, Pavese mangiava pane e salame e raccoglieva in giardino le mele cotogne che divorava senza attendere che ne facessero marmellata. Ora si sentono latrare cani in lontananza, e ogni tanto sfreccia qualche ciclista. La casa è addossata alla strada, tra frassini e castagni.
Si chiama Villa Mario, il nome di un fratello del cognato dello scrittore che morì giovane, combattendo nella Grande guerra. Tra i sentieri che portano al Sacro Monte di Crea, Pavese ebbe la prima ispirazione dei Dialoghi con Leucò, «forse, tra i libri che aveva scritto, quello che lui preferiva», dice la nipote, e l' idea germinale per Il diavolo sulle colline.
Gli abitanti del luogo ne parlavano come di un uomo vestito di nero che fumava la pipa, quando lo vedevano scendere dalla scalinata a colonnine per avviarsi nel bosco. Un solitario, un po' un orso. Uno che non dava confidenza, molto timido e sensibile.
Nei mesi da sfollato fece amicizia con padre Giovanni Baravalle, insieme parlavano di Dio. «Ma una volta tornati a Torino, credo che in chiesa non sia mai più entrato», ricorda Maria Luisa.
La signora ci riceve nel suo appartamento nel quartiere torinese della Crocetta, non lontano da via Lamarmora dove la famiglia della madre e lo scrittore vissero per oltre vent' anni, e dove lei crebbe accanto a Pavese. Maria Luisa Sini è una donna lucidissima e gentile, ex professoressa di italiano.
Ha il viso allungato e serio che un poco ricorda quello dello zio, appeso sul muro in una celebre fotografia. Qui c' è anche la vecchia libreria di Pavese, in legnaccio scuro. Un paio di scaffali contengono dei vecchi volumi appartenuti allo scrittore. «Lì sotto c' erano le scatole con i suoi manoscritti, da bambine ci giocavamo attorno, una volta un coperchio se lo mangiucchiò un cane. In quanto alla tesi di laurea, quasi non ricordavamo nemmeno di averla».
La signora Maria Luisa parla seduta sulla poltrona, nella penombra del pomeriggio, le mani in grembo. È l' ultima testimone diretta dello scrittore grande e tormentato. «Lui era del 1908, io del '28. In casa non avevamo alcuna percezione che lo zio fosse un genio.
Prima che morisse, i suoi libri non mi avevano mai interessato, poi però mi laureai con una tesi su Il mestiere di vivere, il diario in quei giorni ancora inedito, il testo che lo zio aveva sulla scrivania quando si suicidò. Due mesi prima, quando vinse lo Strega (per La bella estate, ndr) gli dicemmo solo "oh bravo, complimenti", ma ricordo che in casa non si fece neppure un brindisi, neanche una piccola cena per festeggiarlo.
Siamo sempre state persone di poche cerimonie, non proprio gente da abbracci. Infatti questi mesi di clausura per il coronavirus non li ho patiti per nulla, anche se per certi aspetti è stato peggio che in guerra: allora dopo il bombardamento era tutto finito, e se eri rimasto vivo continuavi la tua giornata. Qui, invece, quando finirà?».
La nipote ricorda uno zio introverso, solitario e appartato. «Ma molto sensibile, troppo. Non ci parlava mai dei suoi libri: forse non ci riteneva degni. Mia madre lo venerava, e a me e a mia sorella ripeteva sempre di non entrare nella stanza dello zio, di non mettere disordine, di non disturbarlo. In famiglia avevamo per lui una sorta di ossequio reverenziale.
Ogni tanto ci faceva dei regalini, ci dava delle monete, "ecco, compratevi i nastri per le trecce", diceva. Oppure ci portava al cinema. Quando stava scrivendo Tra donne sole, volle sapere da me come sono fatti gli abiti di taffetà, mi chiedeva cose di femmine.
In quel campo, lui, beh, lasciamo perdere... Le sceglieva una peggio dell' altra, oh signùr, a parte la Pivano che non volle sposarlo. C' era la donna con la voce roca, per la quale di fatto si fece mandare al confino: quando tornò, e alla stazione di Porta Nuova seppe che lei nel frattempo si era sposata, cadde svenuto.
E poi quell' americana, l' attrice, l' ultima. Eppure lo zio era un bell' uomo, era alto e non privo di fascino: alle donne piaceva. Ricordo che una sua allieva gli mandava ogni settimana un mazzo di rose rosse, soltanto che lei era brutta, poverina».
Il pensiero va alle ultime settimane della vita di Pavese, agli ultimi giorni.
Il racconto di Maria Luisa è un sussurro. «Si vedeva che non stava bene, altroché. Era deluso anche dopo avere vinto il Premio Strega, stremato dopo avere scritto in due mesi La luna e i falò quasi di getto. Diceva di sentirsi come un fucile sparato. Era nauseato, vittima di maldicenze. Il mondo della cultura è sempre stato pieno di invidie e gelosie.
Gli avevano fatto pesare di non avere combattuto, di non essere stato partigiano, i comunisti specialmente. Ma lo zio aveva l' asma, ogni sera faceva i suffumigi nel bacile: come partigiano sarebbe morto in tre giorni, non era mica Fenoglio! Visse riparato e solo, lavorando sempre».
Fino a quel temporale d' agosto, pochi giorni prima del suicidio: «Si scatenò il finimondo e il vento spalancò le finestre, anche quella della camera di mio zio. I fogli del diario andarono all' aria. Noi entrammo con mille cautele, rimettemmo in ordine ma senza leggere neppure un rigo. Se l' avessimo fatto, forse avremmo capito, forse saremmo riusciti a mandare lo zio da un medico per farlo aiutare».
Sono le celebri pagine finali de Il mestiere di vivere. Sedici agosto 1950: «Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce». Diciassette agosto: «Nel mio mestiere dunque sono re (...) Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Questo il consuntivo dell' anno finito, che non finirò».
Diciotto agosto, ultime righe, nove giorni prima della morte: «Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l' hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».
Non compresero il dramma Maria Luisa e la sorella Cesarina, non il cognato e la moglie Maria. «Però la mamma devo dire che si stupì poco: suo fratello già a quindici anni parlava di suicidio, il vizio assurdo, come scrisse Davide Lajolo. Ma a quel tempo c' era meno attenzione al prossimo, eravamo usciti dalla guerra, si viveva in modo più aspro.
Mio papà faceva l' impiegato, e gli scrittori non erano delle star, guadagnavano anche pochino. Lo zio fu sempre vestito dalla sorella, che non spendeva poi chissà quanto per gli abiti o le scarpe di Cesare: il quale, devo ammetterlo, non era un elegantone. La sua sciarpetta bianca, dopo la morte la regalarono a un contadino.
Abbiamo vissuto per due decenni con Cesare Pavese, eppure lo consideravamo un poco un perditempo, un fafiochè come si dice qui in Piemonte, non proprio un gigante delle lettere. Tra noi e lui c' era una sorta di paratia, non per cattiveria: eravamo fatti così. Dopo la sua morte, a casa vennero Calvino e la Ginzburg per prendere il diario, e nella prima edizione furono tolte alcune parti troppo personali. Così aveva chiesto mia madre, e all' Einaudi si dissero d' accordo. Mi viene ancora in mente lo zio che si riferisce ai fogli del diario sul suo tavolo, e ci ripete: "Questa è una cosa molto importante, non dovete toccare per nessun motivo", e noi purtroppo abbiamo ubbidito».
La signora Maria Luisa fa una pausa. Ha parlato molto. Forse, anche a sé stessa. Ci mostra uno sgabello a righe bianche e rosse: «Lo ricavammo da una poltrona di mio zio». Quando Cesare morì era così giovane, e lei adesso ha superato i novant' anni, due in più del manoscritto che pare fatto d' aria. La signora lo porge dentro un sacchetto di carta, solo a guardarlo si ha paura che si rovini.
«Una cosa che vorrei indietro è la voce di mio zio. Naturalmente ricordo come parlava e non era per niente forbito, usava un italiano normale, lineare, con qualche vocabolo in dialetto. Discorrendo con noi in famiglia, non faceva mai l' intellettuale. Peccato che la sua voce non sia presente in nessun archivio, non sia rimasta incisa su nessun nastro. Ora che sono tanto vecchia sarebbe bello riascoltarla».
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La baleniera «Essex» salpò il 12 agosto 1819 dal porto di Nantucket, in Massachusetts. Quindici mesi più tardi, il 20 novembre 1820, fu assalita da un gigantesco capodoglio maschio al largo delle Galapagos, in mezzo all’Oceano Pacifico. L’esemplare era di dimensioni eccezionali (misurava circa 26 metri) e del tutto straordinario fu il suo comportamento. In precedenza c’erano già stati episodi di navi danneggiate dai grandi cetacei, ma si trattava di collisioni accidentali, favorite di solito dall’oscurità della notte. L’attacco contro la «Essex» fu invece sferrato in pieno giorno, durante una pausa delle battuta di caccia in cui i balenieri erano impegnati. Il capodoglio si avvicinò alla nave, la colpì sul fianco una prima volta, poi si inabissò e passò sotto la chiglia staccandone una parte. Infine si allontanò, come a prendere la rincorsa, e tornò ad abbattersi sulla «Essex». Il secondo schianto fu fatale. La baleniera, ridotta a un relitto, affondò in pochi minuti. Ricorda qualcosa, non vi sbagliate. Basta cambiare il nome della nave, mettere «Pequod » al posto di «Essex» e questo è grosso modo il finale di Moby-Dick. La storia della «Essex», del resto, era ben nota tra la gente di mare anche a decenni di distanza ed Herman Melville ne aveva letto il resoconto più celebre proprio durante uno dei suoi viaggi da giovane baleniere. Era la relazione pubblicata nel 1821 dal primo ufficiale Owen Chase, uno degli otto sopravvissuti al naufragio. La differenza principale tra il romanzo di Melville e la vicenda che l’ha ispirato è proprio questa: del «Pequod» si salva solo l’orfano Ishmael, mentre la «Essex» conta un numero maggiore di superstiti, un drappello di uomini che, su una piccola flottiglia di scialuppe, resistono in mare aperto per tre mesi. Resistono a tutti i costi, arrivando perfino a cibarsi – non senza un tormentoso travaglio morale – dei compagni morti. Storia terribile, raccontata con il dovuto distacco dallo studioso della marineria Nathaniel Philbrick in un saggio, Nel cuore dell’oceano, uscito originariamente nel 2000 e subito annoverato tra i classici della nuova storiografia narrativa. Il libro viene ora riproposto da Elliot con il titolo Heart of the Sea: le origini di Moby Dick (traduzione di Sara Caraffini, pagine 320, euro 17,50) che è lo stesso del film diretto da Ron Howard, nelle sale italiane da giovedì. Produzione cinematografica imponente come il capodoglio di cui sopra, e narrativamente imperniata sulla figura del già ricordato Owen Chase, qui interpretato da Chris Hemsworth, il Thor di Avengers e dintorni. Per una fortunata coincidenza, la programmazione di Heart of the Sea e la riproposta del libro di Philbrick cadono in perfetta sincronia con la pubblicazione della nuova, attesa traduzione del Moby-Dick di Melville approntata da Ottavio Fatica per Einaudi (pagine 674, euro 30). Operazione filologica fin dalla conservazione del trattino nel titolo, un segno grafico normalmente omesso dai traduttori. Ma anche riscrittura di magnifica resa letteraria, nella quale le fonti di Melville – molto Shakespeare, moltissima Bibbia – vengono riportate in superficie e lasciate libere di agire. Certo, la pionieristica traduzione di Cesare Pavese, realizzata con rapidità strabiliante ed edita da Frassinelli nel lontano 1932, conserva il fascino di una scoperta turbinosa e a tratti affannata. Pavese, in fondo, è stato il Cristoforo Colombo del continente Melville, gli esploratori venuti in seguito hanno migliorato e contraddetto la sua mappa, ma il primo a mettere piede su quella terra incognita è stato lui: come poteva non sbagliare? Leggere, come se fosse un libro nuovo, lo splendido Moby-Dick di Fatica e tenere lì a fianco il saggio di Philbrick aiuta ad avere una cognizione più chiara dell’amalgama da cui nasce, nel 1851, questo romanzo assolutamente non romanzesco, opera mista di cronaca e d’invenzione come tante altre nell’Ottocento (da Balzac a Dostoevskij, da Dickens a Zola) e insuccesso clamoroso nella carriera di uno scrittore fino a quel momento discretamente affermato.
Le recensioni dell’epoca sono abbastanza impietose nell’elogiare la presunta parte documentaria e intanto ridimensionare le ambizioni letterarie di Melville, al quale si rinfaccia addirittura di essersi lasciato prendere la mano dal troppo magniloquente Achab. Per avere una visione ancora più completa mancherebbe ancora un tassello, ossia l’opuscolo pubblicato nel 1839 da un certo Jeremiah N. Reynolds sulle terrificanti imprese di un’enorme balena albina avvistata a più riprese nel Pacifico. I marinai la chiamavano Mocha Dick. Senza trattino, a quanto pare.
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Il ponte di argilla di Markus Zusak
In principio c'era un assassino, un mulo e un ragazzo, ma questo non è il principio. È prima. Qui ci sono io, Matthew, in cucina di notte - la vecchia fonte di luce - che batto sui tasti, ancora e ancora.
“Il ponte di argilla” è l’ultimo romanzo di Markus Zusak, edito in italiano da Frassinelli. Da quando ho letto “Storia di una ladra di libri” ho sempre accolto con un certo entusiasmo le nuove storie di Zusak ed ero piena di aspettativa e gioia nel finire l’anno con un suo libro. E invece mi sono dovuta scontrare con la realtà di una storia lenta, in cui succede poco e che stenta a decollare, rassegnandomi all’evidenza che anche i miei scrittori preferiti possono regalarmi storie poco emozionanti.
Il ponte d'argilla è la storia appassionante di cinque fratelli costretti a vivere soli, e a definire da soli le regole della propria esistenza. E mentre i fratelli Dunbar amano, soffrono e lottano per imparare a fare i conti con il mondo degli adulti, scopriranno il segreto, tenero e straziante a un tempo, che si cela dietro la scomparsa del loro padre. Al centro della famiglia Dunbar, c'è Clay, l'unico dei fratelli che accetterà di riavvicinarsi al padre, per costruire con lui un ponte, concreto e metaforico nello stesso tempo: lo farà per la sua famiglia, per il loro passato, per il loro futuro, per espiare le colpe e dimenticare il dolore. Lo farà perché crede nel miracolo dell'animo umano. Ma fino a che punto Clay riuscirà a spingersi in questo percorso interiore? Quanti degli ostacoli che la vita gli ha posto davanti riuscirà a superare?
I libri di Zusak partono sempre da vicende quotidiane di un certo peso per poi evolversi verso immagini che superano gli spazi della realtà per approdare in atmosfere metaforiche e di riflessione. Nelle storie di Zusak non c’è mai un solo piano di lettura, dietro la trama principale c’è sempre un’infinità di chiavi di lettura da ricercare mentre le pagine scorrono sotto gli occhi del lettore. Anche questo libro non fa eccezione, anzi ogni pagina è un invito a sprofondare nei recessi della vicenda, un tassello per costruire un puzzle variegato e pieno di impressioni sfocate, di malinconia e di segreti, di forzature e incubi, ma soprattutto la storia di una famiglia, una saga familiare che dall’est Europa della rivoluzione d’ottobre si ricongiunge con l’Australia, terra natia di Zusak. I Dunbar sono una famiglia un po’ strana, numerosa, caotica, e ricca di contraddizioni, cinque fratelli ognuno con la propria personalità e i propri interessi, che si ritrovano a ricostruire una normalità dopo che ogni loro certezza è stata spazzata via.
A narrare la vicenda è Matthew il maggiore dei cinque fratelli, che nella cucina della casa padronale, batte a macchina le vicende che hanno costruito la sua storia e quella degli altri ragazzi Dunbar. Ogni capitolo salta tra un presente incerto, in cui il padre è tornato con la richiesta di aiuto per costruire un ponte e il passato che li ha condotti a quel presente, in piani temporali che finiscono per sovrapporsi e confondersi. Matthew racconta di Rory, Henry, Tommy ma soprattutto di Clay, l’unico che raccoglie l’invito del padre, l’unico che può sopportare il peso della fatica fisica ma soprattutto emotiva che lo aspetta. E allora c’è una casa, un tetto da cui guardare il cielo e una serie di animali messi insieme un po’ per caso un po’ con cognizione di causa. E soprattutto c’è il ponte. Il ponte d’argilla, che in inglese si trasforma in un gioco di parole con il nome del vero protagonista della vicenda, Clay, diventa il simbolo di tutto, un percorso, la costruzione di questo schema intrigato, il ricongiungimento, la perdita e la scoperta di un mondo che sembra perdersi, solo per ricostruirsi, sulla piena emotiva di un fiume di segreti che nessuno si aspettava. Clay con la passione per Michelangelo, l’ossessione per un libro che è solo il punto di congiunzione per la scoperta del passato, si trova a fare i conti con quello che sa, o meglio crede di sapere, e la realtà, offuscata di perdite che si ripetono senza sosta. Il libro è una corsa ad ostacoli, lenta e crudele, di una famiglia che si spezza e ricostruisce, che corre, che è molto fisica in tutte le sue espressioni, sia di gioia che di dolore e che sembra non promettere niente di buono. Arrivare alla fine è una maratona di intenzioni e volontà, perché la scrittura di Zusak si avvolge su sé stessa e non sempre è facile seguirlo nelle sue descrizioni, nelle sue elucubrazioni. Perché la storia circola, su sé stessa e si rinnova ad ogni giro di boa, per non approdare da nessuna parte. C’è speranza forse, ma arriva troppo tardi, troppo in fretta.
Il particolare da non dimenticare? Un materasso…
La storia di un ponte che cerca di superare le distanze fisiche ed emotive di una famiglia, il ritratto cristallizzato di scelte sbagliate e avventure azzardate e i tentativi di ricostruire i rapporti sfilacciati di uomini stanchi ma non sconfitti.
Buona lettura guys!
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Ogni giorno della mia vita
Ogni giorno della mia vita
📚Ogni giorno della mia vita 📚
di Nicholas Sparks
Edito da: Frassinelli
⭐️⭐️⭐️ 3 stelle
Questo romanzo è il seguito de Il posto che cercavo. Jeremy ha lasciato New York e si è fidanzato con Lexie. Vive a Boone Creek, la tranquilla cittadina nel North Carolina. La sua vita e le sue abitudini sono completamente rivoluzionate, sta comprando una casa e sta per diventare padre. Ovviamente, non tutto è…
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“L’ultimo dei Mohicani”, il primo romanziere americano. Storia di James Fenimore Cooper
Cooperstown esiste ancora oggi: 1800 anime e un tot nella contea di Otsego, stato di New York. Il village è famoso perché accoglie il National Baseball Hall of Fame Museum, ma deve la sua fama e la sua nascita a William Cooper, mercante, abile proprietario terriero, che fonda il borgo nel 1785, tra boschi e fiumi, e lo chiama con il suo nome. L’undicesimo dei dodici figli di William Cooper, che servirà al Congresso degli Stati Uniti, è James Fenimore Cooper, il primo scrittore autenticamente americano.
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Fenimore Cooper – nato a Burlington, New Jersey, nel 1789, cresciuto nella città fondata da suo padre – era uno studente discontinuo, discolo. A 13 anni, a Yale, un giorno fece esplodere la porta della camera di un amico, un altro giorno fece recapitare al prof di recitazione, in aula, un asino. Fu espulso. Era quel che desiderava. Anelava l’oceano – come Melville, qualche decennio dopo – e nel 1806 fu reclutato su un mercantile come mozzo. In marina trovò affari per il suo genio: girò l’Europa, guidò una esplorazione verso le cascate del Niagara, gli diedero il timone di un bombardiere. Nel 1806, nel Mediterraneo, venne a conoscenza delle guerre napoleoniche, fu impressionato dalla forza della British Royal Navy, e al cospetto degli antichi padroni degli States si convinse che il suo Paese aveva bisogno di una letteratura autonoma, autoctona, di una cultura non più serva della vecchia Europa. Si sposò, nel frattempo, nel 1811, a 21 anni, con Susan Augusta de Lancey, piuttosto ricca. Da lei ebbe sette figli, di cui uno, Paul, sarebbe diventato avvocato di grido; Susan, naturalista autodidatta e scrittrice attenta ai diritti per le donne, fu, invece, la sua fedele segretaria. I propositi di dare agli Stati Uniti una letteratura propria si concretizzarono ‘all’americana’, cioè con tanta volontà – leggendo un po’ di Jane Austen e di Walter Scott, trascinando Shakespeare tra le foreste americane –, cominciarono nel 1820 con un libro piuttosto modesto, Precaution.
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Fenimore Cooper era un uomo solido, meticoloso, metodico. Quando, duecento anni fa, si mise in testa di fondare la letteratura statunitense, si applicò con l’energia di chi vive una missione. Fino al 1851, la data della morte, pubblicò un libro all’anno, a volte di più – nel 1838, per dire, pubblicò un saggio, The American Democrat, un reportage dall’Italia, un libro storico, The Chronicles of Cooperstown, e due romanzi. Il romanzo più celebre, L’ultimo dei Mohicani, uscì nel 1826, ed è il secondo capitolo dei “Leatherstocking Tales”, il capolavoro di Fenimore Cooper (che comprende, in ordine di apparizione, The Pioneers, The Prairie, The Pathfinder, The Deerslayer). “Leatherstocking”, tradotto, in italiano, ora come Calza di Cuoio, ora come Occhio di Falco, è un vecchio cacciatore, un uomo tra i due mondi, quello dei coloni e quello dei nativi, che vive nella natura americana pur essendone, di fatto, ospite inatteso. Come Mowgli e Peter Pan, varca i mondi, ma non è un fanciullo, ha la concretezza di un Robinson Crusoe. “Sappiamo che si trova ‘in queste pianure per sfuggire al rumore dell’ascia, perché qui non arriveranno i taglialegna’. Oggi il contenuto del messaggio di Leatherstocking verrebbe definito ‘ambientalista’. Il vecchio scout disapprova lo scempio immotivato che Ishmael fa dei pochi alberi che crescono nel luogo dove si accampa e lancia il suo avvertimento sulle conseguenze dell’espansione coloniale nel West: ‘Non ci vorrà molto prima che la maledetta banda di boscaioli e taglialegna che sta alle loro calcagna venga a umiliare le terre selvagge… così quella terra diventerà un deserto popolato, piena di tutti gli abomini e le opere dell’uomo e spogliata della serenità e della bellezza che ha ricevuto dalle mani del Signore!’” (così Ira Rubini nella ricca Postfazione a La prateria, edita da Frassinelli nel 1997).
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Da L’ultimo dei Mohicani – tra i rari libri di Fenimore Cooper che ancora resistono nel nostro panorama editoriale: le avventure ci piacciono meno, forse – sono stati tratti una decina di film. Il più bello è l’ultimo, diretto dal bravo Michael Mann nel 1992: in quel caso Nathanliel Bumppo/Occhio di Falco è un indimenticabile Daniel Day-Lewis. Del film è oro l’incipit: la corsa miliare di Day-Lewis nelle foreste irochesi, all’inseguimento del cervo.
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Fenimore Cooper era un inquieto. Nel 1826 parte per l’Europa, conquistando i favori di Balzac e di Victor Hugo, che con enfasi lo giudicava “il più importante romanziere del secolo”. I francesi erano conquistati dal paesaggio esotico e crudo dei romanzi di JFC e dalla sua scrittura involuta, complessa, contorta (che oggi lo rende lettura difficile per i poppanti del libro). Scoprì che anche Franz Schubert lo leggeva con gioia, sognando, forse, il West a Vienna; i suoi romanzi furono tradotti, con un successo insperato, in Russia. JFC non disdegnava la fama, tuttavia, i marmi e i cristalli e i salotti europei gli vennero in schifo: tornò negli States nel 1833, livido con il mondo. Nel 1838 Home as Found costituisce una specie di atto d’accusa, “è un caustico commento sulle mancanze della sua nazione: le leggi della plebe, la stampa irresponsabile e ingiuriosa, la deferenza verso l’Europa” (Daniela Guglielmino nell’edizione Einaudi de L’ultimo dei Mohicani). Finì per stare sulle scatole a tutti, il cantore della vita nelle praterie. Dopo di lui – ma anche grazie a lui – nacquero Nataniel Hawthorne e Herman Melville, Henry James e Edith Wharton. I romanzi di Fenimore Cooper, intagliati nel legno, furono svergognati. Edgar Allan Poe era geloso del loro successo; Mark Twain spaccò JFC in quattro: “non ha invenzione, non ha ordine… non ha nessuna verosimiglianza, nessuna tensione, nessuna forza emotiva”. Anche Fernanda Pivano, che pure lo ha tradotto, ne minimizzò il talento: “imitatore, ebbe la fortuna di imbattersi in una materia romanzesca quasi vergine e di saperla sfruttare secondo le norme di una scuola letteraria (il romanzo storico) già largamente accettata”. Eppure, è dalle tortuosità linguistiche di JFC e dal suo senso per il selvaggio che nascono, raffinati, Whitman, Faulkner, Hemingway. L’uomo al cospetto della natura trionfante: il tema ‘romantico’ trovò in JFC una prima sistemazione romanzesca; ecco perché non dispiaceva a Joseph Conrad. Il fatto che ogni capitolo dei suoi romanzi ‘indiani’ sia introdotto da una citazione da Shakespeare, poi, fa tenerezza: la patria linguistica è sempre quella, come entrare nella giungla discettando sull’essere, sulla vita evanescente come un’ombra, sui molteplici nomi di Dio.
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L’unico, strenuo difensore di Fenimore Cooper, il primo romanziere degli Stati Uniti che scrisse L’ultimo dei Mohicani, fu David H. Lawrence. A lui le ingenuità e i colori forti piacevano: all’armonia rinascimentale, risolta, preferiva la purezza primitiva, grezza. “Per l’America il mito è un uomo che volta le spalle alla società dei bianchi e che mantiene solida e intatta la sua integrità: un solitario, stoico e forte uomo che vive di morte, eppure è limpido e puro. È questo il vero americano. Se lo vedete rompere il suo isolamento statico e fare un movimento nuovo, attenti: qualcosa sta per accadere”. Pare una profezia. Da affiancare a quell’altra, scritta da Fenimore Cooper: “I visi pallidi sono i padroni della terra, verrò l’ora dei pellerossa”. In ogni caso, JFC voltò le spalle agli uomini del suo tempo, tornò nel paese che aveva fondato suo padre e riaprì Otsego Hall, la villa di famiglia. Era chiusa da decenni. I suoi l’avevano costruita tra il 1796 e il 1799, pietra su pietra, colonne e finestre. Questa è l’America, gente: uno che bivacca in una foresta, costruisce una casa, avvia una stirpe. Il bosco non aveva ancora vinto l’abitato. JFC si ritirò lì a scrivere libri di storia, cioè a fare la storia. Lì morì. Di Otsego Hall non restano che disegni: fu sbriciolata da un incendio poco dopo la morte di Fenimore Cooper. La figlia Susan costruì una villa secondo i ricordi dell’altra, edificata dal nonno, abitata dal padre. Questa è la vita – e c’è qualcosa di biblico in questo. (d.b.)
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Parliamone: La perfetta ossessione; Jenefer Shute
Parliamone: La perfetta ossessione; Jenefer Shute Josie ha venticinque anni, laureata in economia con ottimi voti, è ricoverata in una clinica specialistica a causa dell'anoressia. Non potrà lasciarla finché non avrà raggiunto un peso sufficiente...
Parliamone: La perfetta ossessione – Jenefer Shute
Casa Editrice: Frassinelli Anno di Pubblicazione: 1992 Genere: Narrativa Numero di pagine: 230
La perfetta ossessione, o Life-Size, è un romanzo di Jenefer Shute, autrice nata in Sud Africa, ma che vive nello stato del New York.
Oggi andremo a parlare di un romanzo molto vecchio. Come avrete letto, infatti, la pubblicazione risale a più di…
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Markus Zusak Il ponte d'argilla Dodici anni dopo Storia di una ladra di libri, Markus Zusak torna con un romanzo di lancinante bellezza che lo conferma come uno dei più importanti autori della scena letteraria mondiale. #TRAMA C’erano stati anche un nonno con la passione per i miti greci, una nonna e la sua macchina da scrivere, un pianoforte consegnato nel posto sbagliato, una ragazza con le lentiggini che amava le corse dei cavalli, e un padre che, dopo la morte della moglie, aveva abbandonato i suoi cinque figli: Matthew, Rory, Henry, Clay e Tommy. Sono loro i fratelli Dunbar e sono stati costretti a vivere soli e a definire da soli le regole della propria esistenza. E quando il padre tornerà sarà Clay l’unico dei fratelli che accetterà di aiutarlo e costruire con lui un ponte, concreto e metaforico nello stesso tempo: lo farà per la sua famiglia, per il loro passato, per il loro futuro, per espiare le colpe e per affrontare il dolore. Lo farà perché lui è l’unico che conosce tutta la storia, e per questo è obbligato a sperare. La storia di Clay, dei suoi fratelli e della sua famiglia è di quelle destinate a incidere a lungo nell’immaginario collettivo, per la densità di vita e sentimenti, per il racconto travolgente, per la voce acuta, calda e suggestiva. —— #libri #pubblicazioni #ebook #leggerefabene #leggeremania #booklovers #leggere #letture #booknow #booklover #leggerechepassione #leggeresempre #bookaddicted #bookaddict #bookish #bookaholic #booknerd #bookworm #bookstagram #igreaders #bookaddiction #bookblogger #booklove #frassinelli #peccatidipenna https://www.instagram.com/p/BovucYfCvcJ/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=1gi2rogxgw8ca
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"Sentimi" di Tea Ranno
A Melilli una presentazione teatralizzata del Romanzo Melilli – Domani, alle ore 19.30, nella splendida cornice della Pirrera di Sant’Antonio, in contrada Pianazzo a Melilli, la compagnia Trinaura_Teatro metterà in scena un estratto del romanzo “Sentimi” , un altro capolavoro della scrittrice Tea Ranno, edizioni Frassinelli. La drammaturgia e la regia sono state affidate a…
“Sentimi” di Tea Ranno was originally published on ITALREPORT
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Buon pomeriggio lettori 🤍 ~ È disponibile da oggi, su Amazon Prime, il nuovo film con Harry Styles, tratto dal romanzo di Bethan Roberts: My Policeman 👮🏻♂️ ~ La storia ruota attorno ai tre protagonisti: Tom, giovane poliziotto, Marion, insegnante innamorata di lui sin da bambina e Patrick, curatore al museo. Per Marion e Patrick, Tom rappresenta l’uomo di cui sono innamorati, ma nell’Inghilterra degli anni ‘50, l’omosessualità è condannata dalla legge, così il giovane poliziotto nasconde il suo peccato dietro il matrimonio con Marion. Almeno fino a quando le loro vite finiranno per spezzarsi. ~ Nonostante avessi motivi per odiare l’uno o l’altro personaggio, sono riuscita comunque ad immedesimarmi appieno nelle loro scelte e nei loro sentimenti, grazie soprattutto alla bravura dell’autrice nel descriverli. Conoscere il punto di vista sia di Marion che di Patrick ha mostrato tutte le sfumature di una storia d’amore in cui tre persone si sono amate, perdonate, fatte del male e rimpiante, condividendo lacrime e dolore, ma rincorrendo il tempo che le teneva separate. “My Policeman” è liberamente ispirato alle vicende dello scrittore E.M. Forster e descrive la vita di uomini e donne con un unico grande difetto: quello di amarsi ogni oltre misura. ~ Lo avete letto? Cosa ne pensate? 💭 Oppure preferite guardare il film? 🎞️ Fatemelo sapere nei commenti! ♥️ ~ #libro #bookstagramitaly #book #leggere #reading #lettricecompulsiva #leggerechepassione #consiglidilettura #leggereésempreunabuonaidea #recensione #bookreview #letteratura #lettureconsigliate #lettrice #reader #ioleggo #booklover #bookphotography #laragazzadellibro #mypoliceman #bethanroberts #frassinelli https://www.instagram.com/p/CkjF1oXoZnf/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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"Aspettiamo l'estate per poterne poi parlare male." - Ennio Flaiano . . . Qualche novità, tra Pamuk, La Rochelle, teatro e romanzi. #libro #libri #libreriaonline #libreria #book #books #bookstagram #cit #citazione #seunanottedinvernounlibro #romanzo #libriusati #librirari #instabook #instabooks #bookshop #bookpride #letteratura #ennioflaiano #leggere #lettura #narrativa #teatro #orhanpamuk #bompiani #adonis #frassinelli https://www.instagram.com/p/CDMZEtInJUR/?igshid=7jkqs6hplfax
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Scopriamo meglio: Sleeping Beauties - Presentazione
Ciao a tutti! Eh si, ho finito questo libro stupendo e non vedevo l'ora di potervene parlare...ma un'opinione era troppo poco, così ho provato a creare questa settimana dedicata alle Belle Addormentate moderne e alla loro storia. O per meglio dire, la storia che Stephen e Owen King hanno costruito sulla base di una semplice domanda:
Che succederebbe se tutte le donne del mondo non si svegliassero più?
Come prima "tappa" stiamo sul semplice, una panoramica sul libro e sugli autori.
Cliccando sulla Cover si va su Amazon
Titolo: Sleeping Beauties
Autori: Stephen King & Owel King
Copertina rigida: 652 pagine
Editore: Sperling & Kupfer
Data Pubblicazione: 21 novembre 2017
Collana: Pandora
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8820063263
ISBN-13: 978-8820063269
Trama Dooling è una piccola città fortunata del West Virginia, con una splendida vista sui monti Appalachi e lavoro per tutti. E a Dooling, infatti, che qualche anno fa è stato costruito un carcere all'avanguardia destinato solo alle donne, che siano prostitute o spacciatrici, ladre o assassine, o ancora tutte queste cose insieme. Ed è una di loro, in una notte agitata, ad annunciare l'arrivo della Regina Nera. Per il dottor Norcross, lo psichiatra della prigione, è routine, un sedativo dovrebbe sistemare tutto. Per sua moglie Lila, lo sceriffo di Dooling, poteva essere un presagio. Perché poche ore dopo, da una collina lì vicina, arriva una chiamata al 911, ed è una ragazza sconvolta a urlare nel telefono che una donna mai vista ha ammazzato i suoi due amici, con una forza sovrumana. Il suo nome è Evie Black. Intorno a lei svolazzano strane falene marroni e sembra venire da un altro mondo. Lo stesso, forse, dove le donne a poco a poco finiscono, addormentate da un'inquietante malattia del sonno che le sottrae agli uomini. Un sonno dal quale è meglio non svegliarle.
OWEN PHILIP KING, nato a Bangor nel 1977, è il figlio minore di Stephen King. Autore di due raccolte di racconti (la prima delle quali pubblicata da Frassinelli con il titolo Siamo tutti nella stessa barca) e di un romanzo, ha ricevuto diversi premi letterari per il suo lavoro. È sposato con la scrittrice Kelly Braffet. STEPHEN KING vive e lavora nel Maine con la moglie Tabitha. Le sue storie sono clamorosi bestseller che hanno venduto centinaia di milioni di copie in tutto il mondo e hanno ispirato registi famosi come Brian De Palma, Stanley Kubrick, Rob Reiner e Frank Darabont. Accanto ai grandi film, innumerevoli gli adattamenti televisivi tratti dalle sue opere. King, oggi seguitissimo anche sui social media, è stato insignito della National Medal of Arts dal presidente Barack Obama.
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